giovedì 15 dicembre 2016

Il flashback e l'arte del ritorno

Non sempre la storia che stai raccontando, o leggendo, rispetta l'ordine in cui si sono svolti i fatti. Può partire da metà, tornare indietro, poi proseguire da dove si era interrotta. Può cominciare dalla fine prima di spiegare tutto ciò che ha portato a quel momento. Può saltare di tempo in tempo, ripetere più volte lo stesso istante visto da diverse prospettive, confondere il lettore pur di nascondere un dettaglio che svelerà solo al momento del colpo di scena.

L'ordine cronologico degli eventi in una storia si chiama fabula. La fabula è l'ordine naturale in cui sperimenti il tempo: passato, presente, futuro. La sequenza logica in cui ogni cosa avviene. Hai fame, mangi, sei sazio. Urti un vaso, il vaso cade, si rompe.

L'intreccio, invece, è il modo in cui chi scrive ha scelto di raccontare la storia. Può essere identico alla fabula, leggermente diverso, o completamente stravolto. Mangi; avevi fame, e ora sei sazio. Il vaso si è rotto perché è caduto, ed è caduto perché l'hai urtato.

Uno dei modi in cui fabula e intreccio si possono discostare è l'inserimento di un ricordo nella narrazione tramite la tecnica del flashback. Il personaggio o il narratore che ricorda quegli eventi non li sta semplicemente raccontando a qualcun altro: li sta rivivendo, come se fossero presenti in quel momento. E tu che leggi, li rivivi con lui o con lei, completamente immerso in quel tempo passato.

È stato il titolo, o tema di Giusi Marchetta, "Un dolce ritorno", che mi ha ispirato a scrivere una storia che si svolge nell'arco di pochi minuti, quasi completamente costituita da un lungo flashback. Così come con "Sentirsi", non ho resistito all'idea di giocare con le parole, e ho inserito nel racconto il ritorno in tutti i modi che riuscivo a immaginare. Ritorno nella trama, come il ritorno a casa del protagonista. Ritorno nella tecnica di narrazione, come flashback e rievocazione del passato. Ritorno nella struttura del racconto, come ripetizione dell'incipit alla fine, solo più ampliato, ogni frase spiegata da una breve digressione. Ritorno nella presenza di un simbolo, la torta, che viene ripresa più e più volte, costruendo un filo invisibile che collega ogni evento e tempo del racconto. Lo avevo già fatto nel racconto Piccole donne, solo che lì i simboli ricorrenti erano molti, ripetuti ciascuno per due o tre volte: il bianco e nero degli scacchi e della fotografia, la siepe di biancospino, i pedoni, il libro "Piccole donne" di Louisa May Alcott. Ma con un singolo simbolo, il ritorno mi pare ancora più efficace.

La seconda idea con cui ho costruito Buon compleanno è stata l'accostamento di un mondo reale a un mondo fantastico, come può esserlo Alfheim, la terra degli elfi nella mitologia nordica; e il rovesciamento di questi due ai tuoi occhi. Perciò nel racconto la realtà è un "mondo di antiche rovine e castelli che ancora portano i segni di epiche battaglie", "verdi foreste, le macchine volanti e le città di altissime torri", "poco più che una leggenda, una favola in un libro per bambini". La madre umana, esperta in una "particolarissima magia", quella del ricordo, ha "sguardo liquido, da gatta", ed è "esile e fragile quanto un giunco; quasi un fantasma. Non gli pare reale". Di contro, ad Alfheim "non c’è avventura in quello che chiama “il mondo reale”, "fatto di eterno presente, nessuno festeggia i compleanni", e il padre elfo ha occhi "profondi, immutabili, normali".

Sono riuscita a creare quest'illusione, a farti credere nel rovesciamento dei due mondi per poi sorprenderti con la rivelazione finale? Non lo so. Quello che penso, nel rileggere il racconto a distanza di anni, è che sono stata fin troppo delicata, parca di dettagli, che avrei potuto calcare di più la mano per rendere molto più netta la distinzione tra i due mondi. Alfheim molto più concreta e reale, aggiungendo le storie del padre a cui ho solo accennato, rendendola banale nelle parole di un elfo che la vive come quotidiana normalità. La realtà che conosciamo ancora più evanescente e fiabesca nei ricordi del protagonista, che svaniscono mentre quella parte del suo cervello "si addormenta".

Oppure avrei potuto far prendere a questo racconto una piega diversa. C'è un punto, un punto esatto della storia, quello in cui il protagonista spiega che ha dovuto aggiungere particolari inventati per parlare ai suoi coetanei del mondo di suo padre. Adesso, ogni volta che lo rileggo e arrivo a quel punto, mi chiedo se non sarebbe stata una storia più interessante quella in cui uno dei due mondi sembra appartenere a un universo fantasy; fino alla rivelazione che li riporta entrambi sul piano della realtà, solo che è una realtà differente come può essere quella di due nazioni, culture e popoli umani molto distanti tra loro.

Per quanto tra un racconto fantasy e uno realistico io faccia il tifo per il primo, non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe stata quella storia non scritta.


Come al solito riporto dal racconto qualche frase che mi piace particolarmente. È stato più difficile rintracciarle in questo caso, mi pare che non ci siano delle "primedonne" che spiccano come significative e gradevoli in se stesse, quanto piuttosto un lavoro di squadra nell'incastro che forma ogni paragrafo.

Quella particolarissima magia in cui sua madre è esperta, l’arte di evocare ricordi con un suono, un profumo o un gusto.
Lui, suo padre, che l’ha amata, ma che tuttavia ama troppe cose per potersi soffermare su una soltanto.
Lei sorride, e le piccole rughe sul suo volto sono testimoni del tempo trascorso, di diciannove torte preparate e mai mangiate, della costanza di chi ama pochi al mondo, ma con tutta l’anima.

A lunedì per il prossimo incipit, il quarto della serie!
E come sempre, se vuoi dirmi quello che ti è piaciuto, non ti è piaciuto, avresti scritto in modo diverso o non hai capito del racconto, ti invito a lasciarmi un commento qui sotto.

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