lunedì 12 dicembre 2016

Buon compleanno

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      “Assaggia.”

      Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.

      Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.

      Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.

      Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.

      Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.

      “Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”

      “Dimmelo tu.” Lei incrocia le braccia sul tavolo, appoggia il mento sugli avambracci e lo osserva con quello sguardo liquido, da gatta. Non sa come ci riesce. Lui non c’era mai riuscito: ha gli stessi occhi di suo padre, profondi, immutabili, normali.

      Lui scuote la testa, non è più abituato ai colori e ai sapori di quella terra. È stato lontano troppo a lungo. Ha bisogno di un altro assaggio prima di capire, prima che la magia abbia effetto. Quella particolarissima magia in cui sua madre è esperta, l’arte di evocare ricordi con un suono, un profumo o un gusto.

      E all’improvviso ha cinque, sei, sette, otto anni. È a tavola davanti a una torta di compleanno, e c’è suo padre. Lui c’è sempre al suo compleanno. È l’unico giorno in cui si fa vivo, ormai.

      Suo padre è lì per infilare il cucchiaino nella parte bianca della farcitura e assaggiarla con lui.

      “Papà resta con me, per favore” gli chiede con angoscia prima di addormentarsi.

      “Mi dispiace. Non è il mio mondo, questo.”

      Lei, al suo fianco, è esile e fragile quanto un giunco; quasi un fantasma. Non gli pare reale, non gli pare mai reale quando c’è di mezzo lui. Lui, suo padre, che l’ha amata, ma che tuttavia ama troppe cose per potersi soffermare su una soltanto. Ha amato quel mondo di antiche rovine e castelli che ancora portano i segni di epiche battaglie, ha amato le sue verdi foreste, le macchine volanti e le città di altissime torri. Ha amato lui e sua madre, ma non abbastanza per restare.

      Ha nove anni ed è in volo con sua madre verso la grande città al di là del mare. Le sue torri di cristallo e d’argento sono le più alte che abbia mai visto e lo fanno sentire piccolo, una formichina in una terra di giganti.  È tanto vasta che ha rischiato di perdersi in quella terra, e ha paura; per consolarlo, sua madre lo accompagna in una bottega di dolci e gli compra una fetta di torta. Lui tuffa il cucchiaino nella parte bianca della farcitura, ma non ha lo stesso sapore senza suo padre.

      Lui c’è, compleanno dopo compleanno, a dieci, undici, dodici e tredici anni. In questo, almeno, non lo delude mai. A quattordici anni, mentre assapora la torta assieme a suo padre con i gesti di sempre, ancora non sa che quella sarà l’ultima volta. Lo scopre la sera, quando suo padre gli dice che non tornerà e lui litiga con sua madre. Vuole seguirlo in quel mondo che ha dovuto inventare per i suoi coetanei, per spiegare loro perché è diverso o perché suo padre si fa vivo solo ai compleanni. Quel poco che è riuscito a sapere gli sembra banale: a sentire suo padre, non c’è avventura in quello che chiama “il mondo reale”. Non gli crede, perciò ha dovuto inventare, aggiungere piccoli particolari qua e là per rendere le sue storie interessanti.

      Nessuno, ovviamente, aveva mai creduto a lui.

      A quattordici anni non gli bastano più i racconti, vuole sapere che cosa c’è di vero e se suo padre gli ha nascosto qualcosa. Più di tutto, però, non lo vuole perdere. Sua madre, invece, non vuole perdere lui.

      Litigano, tutti e tre; e lei, fragile com’è, non può fermarli. Gli infila però un biglietto nello zaino, svelta: “Ti aspetterò per il tuo compleanno. Torna. Ti preparo la torta.”

      Quando lo scopre lui lo accartoccia con rabbia, però lo conserva. Non torna indietro, né per il quindicesimo compleanno, né per il successivo o quello dopo ancora. Nel mondo di suo padre, fatto di eterno presente, nessuno festeggia i compleanni. E anche lui, a poco a poco, dimentica. Dimentica i sapori, dimentica i colori dell’altra terra, e una parte di lui si addormenta. L’altro mondo diviene poco più che una leggenda, una favola in un libro per bambini. Le sue torri, le sue foreste, le sue rovine gli sembrano ora fantasie irreali. Gli sembra di aver immaginato anche lei, così diversa dalla gente di suo padre; eppure qualcosa di lei sopravvive nei suoi tratti delicati, nelle sue orecchie con appena un accenno di punta. Lì tutti possono vedere quanto sia diverso da loro, non solo i bambini.

      E niente è come lo aveva immaginato, ma non sa come tornare indietro. Almeno, non fino ad ora.

      Ha trentaquattro anni, ma non li dimostra: il vantaggio dell’essere figlio di due mondi. È seduto al tavolo della cucina di sua madre. Tra di loro, una torta.

      “Assaggia.”

      Il cuore gli batte forte come quand’era bambino e non sa cosa farsene delle sue braccia. Ha trascorso troppo tempo ad affinare la magia che gli scorre nelle vene, e la gente di suo padre ha modi di sentirsi che non implicano il tatto. Non sa che farsene, così le tiene incrociate sul tavolo.

      Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso, così tante che proprio non sa da dove iniziare.

      Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. “Sono tornato.” Invece sono stati zitti.

      Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso. Suo padre, che l’aveva lasciato senza morire. Non muore mai la gente di suo padre: semplicemente, un giorno decide che ha visto abbastanza, amato abbastanza, e sparisce dal mondo, così, senza salutare.

      Quando porta il cucchiaino alla bocca il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata. E lo era davvero, dopo vent’anni trascorsi nell’eterno presente di Alfheim.

      “Lo so perché sei venuto” dice lei. Lo sa. Sa che ha trovato la strada di casa soltanto quando si è spezzato il legame che lo teneva avvinto a quella terra; sa che suo padre non c’è più.

      Nello stesso momento lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”

      Un istante dopo, la magia tutta umana del ricordo fa il suo corso. Non ha bisogno di rispondere, ora sa. Panna e cioccolato, la sua preferita da bambino. Ricorda di avere un biglietto ingiallito da qualche parte, in tasca o nello zaino. Lascia il cucchiaino per cercarlo, lo trova e lo dispiega sul tavolo. Lei sorride, e le piccole rughe sul suo volto sono testimoni del tempo trascorso, di diciannove torte preparate e mai mangiate, della costanza di chi ama pochi al mondo, ma con tutta l’anima.

      “Buon compleanno” gli dice. “Bentornato nella terra degli uomini. Bentornato a casa.”

      E ora, lì dove il tempo scorre, ha tutto il tempo di raccontare e ricordare.

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