lunedì 28 novembre 2016

Piccole donne

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose. Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scacchiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita dura un’ora o più.

      “Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta.

      “Si invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene. Le piace sentirsi buona, pura, pulita. Come una scacchiera con i pezzi ben allineati prima di giocare, o un foglio bianco su cui nessuno ha ancora scritto. Caterina dice che allora, all’inizio, è tutto possibile; poi succede qualcosa, la storia si guasta, e non si può più tornare indietro.

      Io protesto senza troppa convinzione, come ogni volta, poi come ogni volta cedo e prendo il nero. A me piace farla felice.

      Caterina sorride e si sdraia a pancia in giù sul pavimento, senza attendere che mi sieda muove uno dei suoi cavalli. Scuoto la testa. La giovinezza non ha pazienza, vuole subito entrare nel vivo delle cose. Io mi siedo sul cuscino, con le gambe allungate di lato, e sposto uno dei miei pedoni. Mi sono sempre stati simpatici, così piccoli e tutti uguali, eppure ognuno sulla sua riga, dritto per la sua strada. La gente tende a sottovalutarli, preferendo i pezzi più “importanti” e con più libertà di movimento sulla scacchiera. Per me invece, perdere anche soltanto uno di quei piccoli soldati è quasi doloroso.

      Caterina risponde alla mia mossa. Io non le bado, preparo la mia strategia con la saggezza degli anni, certa che perfino lei non oserà rischiare, non così presto. Infatti preferisce non rovinare la storia, o la partita.

      All’inizio giochiamo in silenzio, come al solito, godendo ciascuna della presenza dell’altra. Fuori dalla finestra la siepe di biancospino, coi fiori bianchi odorosi di maggio, ci protegge come le mura di un castello incantato, lasciandomi credere che questo sia davvero il suo – il nostro – piccolo momento di piacere. Fuori di qui, altrove, la vita guasta le storie. Qui no, non di mercoledì pomeriggio almeno.

      Caterina fa la sua mossa e poi mi guarda, fremendo d’impazienza. Si calmerà, più avanti, lo so; per ora, ogni mossa le sembra una scelta facile. Sposto uno dei miei alfieri per metterla un po’ in difficoltà.

      “E ora che dici?” le chiedo con un sorriso sornione. Lei sbuffa, si puntella sui gomiti e appoggia il mento sul palmo della destra, scrutando la scacchiera. Mi pare quasi di vedere, dietro i suoi occhi chiari, tutte le mosse che sta considerando assieme alle mie possibili risposte. Distolgo lo sguardo con discrezione, voglio lasciarla pensare in pace. Sul comodino, accanto al letto, la copia di “Piccole donne” che le ho regalato per il suo compleanno sta prendendo polvere.

      “Sei ancora ferma a pagina novantasette?” le chiedo.

      Lei annuisce con un mugolio disperato. So cosa avviene a pagina novantasette: a casa ho una copia della stessa edizione. A pagina novantasette, Amy brucia il libro di Jo.

      Per Caterina, che si era innamorata a prima vista della parola scritta, che a poco più di sei anni aveva deciso di voler fare la scrittrice, per Caterina che era felice ogni volta che prendeva in mano la penna o che leggeva una storia, il gesto di Amy era stato un affronto imperdonabile. E come Jo si era arrabbiata molto con la piccola donna, di quella rabbia ostinata di cui sono capaci soltanto i bambini. Fosse stata una sua amica, Caterina avrebbe smesso di parlare con Amy; dato che era un personaggio in un libro, aveva semplicemente smesso di leggere.

      “Quanto tempo è passato? Dovresti fare la pace con lei” le dico. “Mi piacerebbe che lo finissi. Così potremmo parlarne.”

      Caterina non risponde. So di aver toccato un tasto dolente. Eppure è un peccato: le ho regalato quel libro perché ci unisse, non perché ci separasse.

      Siamo entrambe, in un certo senso, piccole donne. Anche se lei non lo rimarrà ancora a lungo.

      Caterina a dodici anni già sembra un’adulta in miniatura. Indossa sempre quei vestiti aderenti, moderni, che io alla sua età non avrei mai potuto immaginarmi addosso. Anzi, me ne sarei vergognata. Oggi ha una blusa bianca, scollata, e una minigonna in jeans. I piedi, fasciati in collant color pelle, dondolano nudi al di sopra della schiena. Sulla bocca imbronciata ha un velo di lucidalabbra rosa; il massimo che le sia permesso, per ora. La immagino guardare i trucchi di sua madre con desiderio e trepidazione, come tutte le bambine della sua età. Come facevo anch’io in un altro tempo, quando però i trucchi erano pochi e i soldi da spendere in simili lussi ancora meno. Guardavo mia madre, riflessa nello specchio, tingersi le labbra di rosso con parsimonia e indossare la collana di perle. Quel rossetto, quelle perle, erano tesori preziosi, da usare soltanto in occasioni speciali. Era bella, mia madre. Io la guardavo e mi immaginavo allo specchio come lei, bella e alta come non sarei mai stata. Dove è finito quel tocco di rosso? È sbiadito in una fotografia in bianco e nero, ma è vivo più del presente nella mia memoria.

      All’improvviso mi viene voglia di raccontarglielo, perché qualcuno dopo di me lo possa ricordare. Caterina ascolta, annuisce condiscendente; però, dopo poco, fa: “tocca a te, nonna.”

      Non c’è posto per il rosso, negli scacchi.

      Mi sono distratta. Le chiedo di mostrarmi la sua ultima mossa, lei me la indica con un dito. Mi sembra impossibile ma già ci sono dei pezzi fuori dalla scacchiera, sia neri che bianchi. Lei ha sacrificato quasi tutto l’esercito di pedoni a cui sembrava tenere così tanto, ma almeno ha ancora entrambi i cavalli, i suoi preferiti. Dei neri, mancano all’appello un cavallo, un alfiere, e – ahi – due dei miei piccoli, coraggiosi pedoni. Li accarezzo, vorrei quasi sussurrare loro: “siete stati bravi, non vi dimenticherò”.

      Caterina mi guarda, in attesa. Rifletto sulla mia prossima mossa e nel frattempo lei si rilassa, e come sempre a questo punto diventa ciarliera. Mi racconta della scuola, delle amiche, del fidanzato che ancora non ha ma che spera di conquistare, delle storie che ha scritto. Dice che vuole leggermene qualcuna, forse mercoledì prossimo, o quello dopo, quando riesce a finirle. Dice che mi piaceranno.

      Quando la partita termina con Caterina che dichiara “scacco matto”, mi sembra impossibile che sia già passata un’ora. Mi sembra impossibile che sia già passata una vita intera. Fino a pochi istanti fa, ero io ad avere dodici anni e a giocare a scacchi con mio padre. Il tempo scorre così in fretta.

      Lei si alza da terra prima di me e viene a darmi una mano. Io sgranchisco le mie gambe storte, poi mi faccio aiutare a rimettermi in piedi. Siamo entrambe piccole donne, ma lei ormai mi ha superata in altezza. Non posso che esserne orgogliosa. Caterina diventerà bella e alta come mia madre, come la donna di cui porta il nome, e il solo pensiero mi procura un piccolo brivido di piacere.

      “Già non vedo l’ora che sia mercoledì prossimo” mi confessa ansiosa. Un po’ la capisco: una settimana è un periodo di tempo molto lungo quando si ha la sua età. Per me invece non è che una manciata di momenti.

      Prima di congedarmi accenno al libro sul comodino. “Per favore, perdonala. Fallo per me.” Non le dico che è solo un personaggio in un libro, che succederanno cose più gravi nella sua vita per le quali varrà la pena arrabbiarsi. Lei lo sta prendendo molto sul serio, e va bene così, alla sua età.

      Caterina mordicchia il labbro inferiore velato di rosa. “Jo la perdona?” mi chiede.

      “Oh, furbetta! Devi scoprirlo da sola” faccio, mentre mi accompagna alla porta. La saluto, sperando ardentemente che la curiosità abbia il sopravvento e che lei riprenda a leggere.


      È mercoledì. Caterina è appena tornata dalla chiesa. È vestita di nero; sembra uno dei miei pedoni. Lei, che non ha mai sopportato il nero.

      Tira fuori dall’armadio la scacchiera, prepara i cuscini, dispone con cura ogni pezzo, lentamente, anche se già sa che stavolta non verrò. Accarezza i suoi pedoni bianchi, muta. Il suo piccolo esercito del bene. Poi inizia da sola, muove il cavallo, attende. Guarda il cuscino vuoto. Fuori dalla finestra, la siepe di biancospino non può più proteggerla. È successo qualcosa, la magia si è spezzata, la storia guastata. Con un gesto rabbioso Caterina butta all’aria tutto. Bianco e nero si confondono sulla scacchiera, entrambi gli eserciti abbattuti in una singola mossa.

      Non ha più voglia di giocare, va a sedersi sul letto. Sul comodino, la copia di “Piccole donne” sta prendendo polvere. Caterina l’afferra, passa una mano sulla copertina. La mano le si riempie di polvere e le ricorda una frase che ha sentito oggi, in chiesa. Si spaventa, la pulisce in fretta sull’abito nero e apre il libro. A pagina novantasette, per tenere il segno, c’è una fotografia in bianco e nero che ritrae una donna alta, bella, accanto a una bambina della sua età. Difficile indovinare i colori di un tempo negli abiti lunghi e sui loro volti. Difficile indovinare che cosa pensavano, cosa stavano facendo in quello che a lei sembra un loro piccolo momento di piacere. E dev’esserlo stato, non solo perché sorridono, ma anche perché la gente non vuole avere una fotografia di quando è triste.

      Caterina mette da parte la foto e comincia a leggere ad alta voce, come facevo io per lei quand’era piccola.
 
       Finalmente ha fatto pace con Amy.

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