sabato 29 luglio 2017

Tilde

Appena l'ho vista sul dizionario, ho pensato: che bel suono questa parola! Chissà cosa significa...
Sono rimasta un po' delusa nello scoprire che è la definizione di qualcosa di minuscolo, quasi insignificante, e difficile da usare in un discorso, per un italiano.

Tilde [tìl-de] s.m. o f Segno a forma di ondina, caratteristico della grafia portoghese e spagnola, che viene sovrapposto, rispettivamente, a vocale, per indicarne la pronuncia nasale, e alla n, per indicarne la pronuncia palatale.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ho però deciso di accettare la sfida, e di provare a scrivere un brano in cui la tilde fosse un dettaglio significativo. Per fortuna avevo, se non i personaggi che sono stati creati per l'occasione, perlomeno il contesto adatto.


Nel quartiere spagnolo, o in ciò che ne era rimasto dopo quella brutta faccenda, si parlava spesso della polvere gialla. Ma piano, a bassa voce, per non attirarne l'attenzione: quelli che la vedevano, sparivano.
A sedici anni, un anno dopo la sua Quinceañera, Nina non era più una niña, eppure continuava a firmarsi con la tilde, come un piccolo sbuffo impaziente sulla sua identità. Forse perché a sua madre piaceva tanto quel vezzo: mi ricordavo come la rimproverava col sorriso e le dava un bacio in fronte prima di partire per il lavoro, se la vedeva sui quaderni di scuola.
A me non piaceva il lavoro di Dora, e non mi piaceva che guadagnasse tanto più di me, ma qualcuno doveva pur pagare le bollette. Lo avevo tollerato, anche se mi pareva contro natura che fosse lei a mandare avanti la famiglia.
Se avessi saputo davvero a cosa lavorava nel suo laboratorio, avrei insistito di più quando litigavamo e mi veniva da dirle che non era giusto, che non andava bene così, che gli uomini giù al bar sparlavano di noi. Di me.
Quella con le palle, in famiglia, era mia moglie. Io non ero niente.
Le chiacchiere non si erano fermate con la morte di Dora. Sapevano tutti che era stata lei a portare la polvere gialla nel quartiere, e si diceva che fosse ancora lei a portarla in giro nel vento, come un fantasma. Se tanta gente era morta, e se continuava a sparire, era colpa sua. E dunque, di riflesso, nostra: mia, e di Nina.
Io non credevo alle storie di fantasmi. Dora era morta. Punto.
Eppure, era strano che tendesse a sparire proprio la gente che ce l'aveva maggiormente con noi.
Fu una mattina d'estate, mentre Nina scriveva le sue poesie durante la colazione, che successe. La sentii gridare, e il quaderno cadere a terra con un tonfo.
– Papà... papà! – urlò Nina, indicando la pagina. Sovrappensiero, si era dimenticata della tilde sulla sua firma sotto l'ultima poesia. Mi chinai.
Sulla enne più piccola, un'ondina di polvere gialla era comparsa a correggere la sua svista.

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