sabato 15 luglio 2017

Refolo

Curioso che mentre scrivo questo post ci sia effettivamente una brezza fresca che mi arriva al viso dalla finestra di fronte. Che mi abbia influenzato nella scelta della parola? Sì, è possibile. Eccola qui:

Refolo [rè-fo-lo] s.m. Soffio di vento improvviso, folata.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Trattandosi di vento, avevo il giusto personaggio e la giusta storia fin da subito, senza dover scartabellare tra i miei appunti. Stavolta non è stato difficile trovare un'ambientazione che rendesse giustizia al termine.


Non ho mai avuto paura dell'altezza.
Stare in piedi sull'orlo del dirupo è una cosa naturale per me, oggi come allora. Mia madre sarebbe morta di paura se mi avesse visto, quel giorno, strisciare i piedi sulla roccia fino a far sporgere gli alluci nel vuoto. Dicono di non guardar giù, ma che divertimento c'è se non lo fai?
L'abisso era un vortice di nebbia che offuscava i tetti della città. Riuscii a scorgere gli spioventi rossi del Tempio del Fuoco, l'edificio più imponente della capitale, e forse l'isola sede del Tempio dell'Acqua, al centro del lago a ovest. Quanto al Tempio della Terra, non sapevo di preciso dove fosse e non m'importava.
Io ero al di sopra di tutti loro.
Il cielo era immoto e caldo, prigioniero del sole del meriggio. Allungai un braccio e attorcigliai un po' d'aria attorno all'indice, come quando si arrotolano i capelli. Tirai verso di me e un refolo fresco sorse ad accarezzarmi la pelle, sollevare le ciocche più corte ai lati del viso e suonare una melodia con la seta leggera della mia gonna frusciante.
A volte sognavo di essere una nuvola. Di potermi sollevare da terra e volare via, libera, nel vento.
Chiusi gli occhi e allargai le braccia, e fu allora che lo sentii. Più irregolare del costante soffio del refolo nelle mie orecchie, come un drappo scosso dalle folate. Qualcosa di soffice e caldo si abbatté sulla mia caviglia.
Aprii gli occhi e balzai indietro. Ma era solo un giovane falco, poco più che un pulcino, che respirava in affanno dal becco dischiuso. Lanciò un verso acuto, e io provai a imitarne il suono.
– Syuss. Ti chiami così, piccolo? – Mi sedetti sui talloni. – Io sono Lyla. Ti sei perso? Dov'è la tua famiglia?
Scrutai il cielo, ma non c'era traccia di altri della sua specie. Allora presi il rametto spezzato di un faggio e ce lo feci salire.
– Andiamo, su, ti porto da Zefiro. Lui è il Sacerdote del Vento, sa tutto sulle correnti. Ti aiuterà a ritrovare la strada – mormorai al falchetto che dondolava sul ramo a ogni mio passo cauto e lento.

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