Questo è un termine tanto astratto da rendermi difficile la scelta di un'immagine che lo rappresenti. Quanto alla definizione, si può facilmente riassumere con: ubiquità, io sono qui ma sono anche là.
Ubiquità [u-bi-qui-tà] s.f. inv. Facoltà di essere contemporaneamente presente in luoghi diversi, propria di Dio; anche in senso scherzoso, specie nella locuzione avere il dono dell'ubiquità, essere ovunque.
Per il brano tratto da questo termine ho deciso di riprendere gli improbabili compari di Fugace. Poiché sono quel tipo di personaggi secondari così interessanti e divertenti da meritare una storia tutta per loro, è molto probabile che prima o poi io la scriva.
Per testare il piano avevo scelto una città di confine non distante da
Torris Znar. Alcunquerdi andava bene come qualunque altra, ma lì la compagnia e
il vino erano migliori.
Al tramonto era tutto fatto e non avevo che da aspettare che mi venissero a
prendere. Non attesi a lungo: le guardie erano celeri in certe situazioni, per
evitare che la testa che aveva da rotolare fosse la loro.
– Aglaudi Mirewn?
Levai gli occhi dal tavolo da gioco. – Sì?
– Sei in arresto per violazione di domicilio – recitò uno dei due. – E
per aver deturpato la villa del governatore con scritte offensive su sua
figlia.
– Come... quando? – Mi alzai assieme alla donna al mio fianco. Avevamo fatto
le cose per bene: aveva curve provocanti in un abito di seta rossa e un foulard
color sabbia le celava la bocca. Ma scommetto che furono le gambe che
scivolavano fuori dagli spacchi a rendere difficile la risposta al mio amico.
– Q-questo pomeriggio. Abbiamo un testimone.
– Allora non ero io. Io sono rimasto qui tutto il giorno a bere,
giocare a dadi e spassarmela. Se non credete a me o ai testimoni – indicai la
ventina di avventori, – potete credere alle registrazioni che l'oste fa di
nascosto per smascherare i bari.
L'omone dietro il banco mi guardò storto, poi annuì alle guardie.
– Quindi o io ho il dono dell’ubiquità, o voi avete preso l'uomo sbagliato,
come quelli di Torris Znar.
– Curioso che tu la nomini – fece l'altra guardia. – Dicono che tu abbia
rubato un mutaforme muto. La tua signora ha perso la lingua?
Era quello più intelligente, ma sperai non lo fosse abbastanza. – Cantaci
una canzone, mia cara.
– No. Dimmi il tuo nome – ordinò la guardia.
– Mavel – rispose lei da dietro il foulard. – Mia sabbia. Perché posso essere
con un uomo, ma non appartenergli. Mai.
Quella prostituta aveva una voce bellissima. Non avevo mai pagato una donna
solo per registrarne la voce, ma ne era valsa la pena.
Ci lasciarono andare. Ero soddisfatto: d’ora in poi, grazie a
Mavel, avrei avuto l’alibi perfetto.
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