lunedì 26 dicembre 2016

La ragazza del capo

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.

      Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.

     Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere.

     
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura. La conosco e non ho bisogno di leggerla per sapere che dice. Mi sembra incredibile che qualcosa di così piccolo abbia potuto torturarmi così tanto. Lui si volta e mi dona uno dei suoi sorrisi sfrontati e affascinanti. C’è il sole oggi nel suo sguardo, e io ora so perché.

      È il nostro segreto.


      Non è sempre stato così. Come in ogni bella storia, c’è il tempo del dubbio e della sofferenza prima del lieto fine. E c’è un inizio: nel mio caso, un nuovo lavoro.

      Lasciate che ve lo dica, non è mai facile essere “quella nuova” in un ufficio. Ogni posto ha il suo modo di lavorare, ma per imparare quello bastano un paio di mesi. No, la parte più difficile è decifrare la complessa rete di relazioni che animano l’ufficio, scoprire i gruppi, le simpatie e le antipatie e scivolare in quel delicato equilibrio senza scossoni. Molti falliscono in questo. Io mi ero fatta voto di riuscirci; lui, a quanto avevo capito, di aiutarmi. Il flirt non era previsto.

      Eppure io provavo qualcosa. Ogni mattina al risveglio pensavo a lui, ed era il pensiero di incontrarlo, di poterlo rivedere ancora una volta che mi faceva amare tanto il mio lavoro. Non ne avevo mai parlato, in tre mesi non avevo mai nemmeno accennato a quanto mi facesse impazzire quel suo modo di guardarmi, a quanto trovassi seducente il tono morbido della sua voce. Ero consapevole di ciò che provavo: sarei stata ipocrita a negarlo a me stessa, ma ero altrettanto consapevole che non potevo aspettarmi nulla. Cavolo, lui era il mio capo, e non si era mai comportato in modo meno che professionale con me. No, non era proprio il caso di illudersi.

      Poi, in marzo, c’era stato l’incidente che lo aveva tenuto lontano dall’ufficio per un paio di settimane. In quel periodo ero diventata apatica, spenta. Non mi svegliavo più felice, non trovavo più alcun motivo di continuare a lavorare là. Mi trascinavo, come sotto anestesia, in un mondo che aveva perso ogni colore.

      Il giorno del suo ritorno lui era di ottimo umore, proprio come oggi, e lo ero anch’io. Se non fosse stato per il braccio sinistro ingessato e per l’ombra di un livido sulla tempia, avrei potuto scambiare quel suo periodo di assenza per una vacanza. Ne aveva tutta l’aria: lui sembrava, in un certo senso, migliore. Sembrava più bello, più allegro, più rilassato, più sexy. Se non l’avessi visto, non avrei potuto crederlo.

      Quella mattina era successa anche un’altra cosa, altrettanto incredibile: lui mi aveva guardata, aveva unito pollice ed indice e li aveva alzati alla bocca, come per invitarmi a prendere un caffè. Non l’aveva mai fatto. Ero rimasta sorpresa e mi ero girata, aspettandomi di vedere il capufficio di un altro reparto, o magari la signora del secondo piano, rispondere con un cenno d’intesa. E invece no, quel gesto era rivolto proprio a me.

      Avevo accettato, seppur con nervosismo. Nei primi dieci secondi c’era stato solo il rumore della macchinetta automatica e un silenzio teso, imbarazzante. Poi lui aveva riso, e non era la risata impostata di chi intende spezzare un momento di imbarazzo, ma quella genuina di chi si è appena ricordato qualcosa di divertente.

      “Diavolo, signorina Mara, si rilassi! Stiamo soltanto prendendo un caffè, non c’è niente di male. Anzi, avrei dovuto farlo prima.” Aveva detto. Poi, rivolgendomi quello sguardo: “E non è la sola cosa che avrei dovuto far prima. Meglio avere rimorsi che rimpianti, non crede?”

      Io avevo annuito, non sapendo che dire. Era stato allora che avevo notato la piccola scritta sul gesso, ma non avevo osato avvicinarmi abbastanza per leggerla. Però ero curiosa, e mi chiedevo se avesse qualcosa a che fare con il suo cambiamento. Per tutta la mattina avevo trovato mille scuse per avvicinarmi a lui. Ogni volta che c’era da portargli un faldone, un documento da firmare, un messaggio, ero io a farlo. E ogni volta, lo sguardo mi cadeva sulla sua ingessatura, su quella piccola scritta storta seminascosta dalla manica della camicia. Lui sembrava contento di vedermi tanto spesso, anzi, ne sembrava compiaciuto. Come se si beasse dell’effetto che le sue parole avevano avuto su di me.

      Ma erano altre le parole che mi avrebbero influenzato nel corso dei prossimi giorni; e me ne accorsi quando, nel portargli l’ennesimo documento da firmare e poi spedire via fax, riuscii finalmente a leggere quella scritta.

      “Guarisci presto.

      Ti voglio bene

      Linda”

      Non avevo mai saputo che lui avesse una moglie o qualcuno che lo attendesse a casa. Linda, che razza di nome. Me la immaginai, solo per un momento, con un vestito bianco e i capelli biondi, tagliati all’altezza delle spalle e curvati verso l’interno. Nella mia mente Linda aveva un sorriso ammiccante e falso come quello di una contorsionista, perfino durante i lavori domestici più faticosi; e forse non era l’unica dote da contorsionista che aveva, per tenerlo così legato a sé.

      Era un pensiero meschino, me ne rendevo conto; ma era meglio la rabbia che la tristezza. La sua felicità non mi apparteneva, non era mai stata merito mio, e quel barlume di speranza che avevo provato davanti al distributore di caffè era stato solo un’illusione. Mentre tornavo alla mia scrivania con il cuore a pezzi sentii il telefono che suonava e Giulia, la mia collega, che gli passava la telefonata dicendo semplicemente: “Linda”

      “Chi era?” le chiesi, fingendo indifferenza. Come se già non lo sapessi.

      “Linda, la ragazza del capo” rispose lei. “Che strano, però. Di solito non vuole che lo chiami al lavoro, e invece sentilo…”

      Lo sentivo, eccome. Lui non faceva niente per tenere privata la conversazione. E la sua voce, già suadente, era ancora più dolce mentre si profondeva in un mare di “tesoro”, “piccola” e “amore”. Ognuno era come uno spillone piantato nel mio cuore. Che stupida, io che non volevo illudermi c’ero cascata in pieno, e ora ne pagavo il prezzo.

      A pranzo la situazione divenne ancora più insostenibile. Di solito lui si sedeva di fronte a me, ad un tavolo di distanza. Lo avevo sempre apprezzato. Non mi piaceva parlare mentre mangiavo, dover ingoiare in fretta un boccone per rispondere oppure, dio che vergogna, sorridere con un pezzetto d’insalata tra i denti o macchie di sugo sulle labbra. No, molto meglio cosi, quel gioco di sguardi silenziosi e sapere di avere i suoi occhi su di me era molto, molto intrigante.

      Però quel giorno avrei voluto evitarlo. Tenni gli occhi bassi finché Giulia non venne a sedersi di fronte a me. L’avevo sempre odiata quando giungeva a separarci; quel giorno, invece, fu un sollievo.

      “Lascialo perdere,” mi disse, sempre prodiga di consigli. “Le storie tra colleghi non funzionano mai; quando si tratta del capo, poi, è ancora peggio.”

      Nei giorni successivi cercai di evitarlo, per quanto mi era possibile. Lasciavo che fosse Giulia a portargli i faldoni, i documenti, i comunicati; lo ignoravo quando non mi parlava di argomenti strettamente attinenti al lavoro e fingevo di non vedere quando, imitando una tazzina portata alle labbra, mi invitava a bere il caffè. Sapevo che prima o poi il mio atteggiamento ostile avrebbe potuto farmi perdere il lavoro, e non m’importava. Lavorare lì con lui, o meglio, per lui, era diventato troppo pesante.

      “Venga con me, signorina Mara” mi disse un giorno, con un’asprezza che non avevo mai sentito nella sua voce. “Ecco, ci siamo,” pensai. Stava per licenziarmi.

      E invece lui mi condusse di fronte ai distributori automatici.

      “Vuole qualcosa? Mi sembra che lei abbia bisogno di un caffè.”

      Stava cercando di addolcirmi la pillola. Scossi la testa.

      Lui schiacciò un paio di pulsanti. Poi si voltò. “Sa, ci sono dei momenti, nella vita, in cui la prospettiva cambia. In cui ci si rende conto di cosa, e chi, conta davvero.” La sua voce, dapprima incerta, divenne via via più sicura. Si toccò il gesso, sorrise. “Intendiamoci, non ho visto la luce. Non ci sono nemmeno lontanamente andato vicino. Però c’è stato un istante di buio, e in quell’istante mi sono reso conto di cosa mi stavo perdendo. Ho quasi rischiato di perdere una persona; e un’altra, non l’ho mai avuta. Meglio rimorsi che rimpianti, no? Pensavo fossimo d’accordo su questo.”

      Lui si avvicinò, avvolto nell’aroma di caffè. Io indietreggiai fino a trovarmi con le spalle al muro. Non potevo scappare, e quando mi accorsi che intendeva baciarmi, gli mollai uno schiaffo.

      “E non pensa a Linda?” gli domandai, tentando di farlo rinsavire.

      Lui sembrava sorpreso. Non si aspettava che lo capissi, con tutte quelle telefonate ad alta voce in ufficio?

      “Scusi, cosa c’entra adesso mia figlia?” E solo allora, mentre si massaggiava la guancia con la mano destra, tornai a guardare la scritta sull’arto ingessato.

      “Guarisci presto.

      Ti voglio bene papà

      Linda”

      Quella volta fui io a ridere, ma di sollievo. Non l’avevo proprio vista, quella semplice parola di quattro lettere. Quanti patimenti, quanti sospetti e frustrazione soltanto per un errore di lettura!

      “Ha ragione.” Gli dissi con un sorriso, aggirandolo e avvicinandomi al distributore. “Credo proprio di aver bisogno di un bel caffè.”


      Oggi so che Linda ha nove anni e sta da sua madre. Lui è divorziato, ma dall’incidente la va a trovare molto più spesso. Siamo le sue due ragazze, come ama dirmi qualche volta. Sul lavoro continua ad essere professionale e discreto, ma fuori è tutta un’altra storia. Usciamo spesso insieme. Ovviamente non è questo il nostro segreto, sarebbe impossibile tenere nascosta una cosa del genere in ufficio. Il nostro segreto è che oggi lui si toglie il gesso, e ce n’è un frammento che vorrebbe riuscire a conservare intero. Un frammento con due scritte storte e due firme che è bene leggere con attenzione, per non perdersi nemmeno una parola.

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